Alessandro Lombardo
Censis: In Italia sono 600mila i malati di Alzheimer, il 18% vive da solo con la badante

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I costi diretti per l’assistenza superano gli 11 miliardi di euro, di cui il 73% è a carico delle famiglie. Sempre più informale e privata l’attività di cura e sorveglianza: nella metà dei casi se ne occupano i figli, il 38% ha il supporto di una badante
Sono 600.000 i malati di Alzheimer in Italia e a causa dell’invecchiamento della popolazione sono destinati ad aumentare (l’Italia è il Paese più longevo d’Europa, con 13,4 milioni gli ultrasessantenni, pari al 22% della popolazione). L’Adi (Alzheimer’s Disease International) ha stimato a livello mondiale per il 2015 oltre 9,9 milioni di nuovi casi di demenza all’anno, cioè un nuovo caso ogni 3,2 secondi. I costi diretti dell’assistenza in Italia ammontano a oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie. Il costo medio annuo per paziente è pari a 70.587 euro, comprensivo dei costi a carico del Servizio sanitario nazionale, di quelli che ricadono direttamente sulle famiglie e dei costi indiretti (gli oneri di assistenza che pesano sui caregiver, i mancati redditi da lavoro dei pazienti, ecc.). È quanto emerge dalla terza ricerca realizzata dal Censis con l’Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer), con il contributo di Lilly, che ha analizzato l’evoluzione negli ultimi sedici anni della condizione dei malati e delle loro famiglie.
Malati e caregiver invecchiano insieme. L’età media dei malati di Alzheimer è di 78,8 anni (era di 77,8 anni nel 2006 e di 73,6 anni nel 1999). Il 72% dei malati è costituito da pensionati (22 punti percentuali in più rispetto al 2006). E sono invecchiati anche i caregiver impegnati nella loro assistenza: hanno mediamente 59,2 anni (avevano 54,8 anni nel 2006 e 53,3 anni nel 1999). Il caregiver dedica al malato di Alzheimer mediamente 4,4 ore al giorno di assistenza diretta e 10,8 ore di sorveglianza. Il 40% dei caregiver, pur essendo in età lavorativa, non lavora e rispetto a dieci anni fa tra loro è triplicata la percentuale dei disoccupati (il 10% nel 2015, il 3,2% nel 2006). Il 59,1% dei caregiver occupati segnala invece cambiamenti nella vita lavorativa, soprattutto le assenze ripetute (37,2%). Le donne occupate indicano più frequentemente di aver richiesto il part-time (26,9%). L’impegno del caregiver determina conseguenze anche sul suo stato di salute, in particolare tra le donne: l’80,3% accusa stanchezza, il 63,2% non dorme a sufficienza, il 45,3% afferma di soffrire di depressione, il 26,1% si ammala spesso.
Ad assistere i malati sono soprattutto figli e badanti. Pur essendo sempre i figli dei malati a prevalere tra i caregiver, in particolare per le pazienti femmine (in questo caso i figli sono il 64,2% dei caregiver), negli ultimi anni nell’assistenza al malato sono aumentati i partner (sono passati dal 25,2% del totale del 2006 al 37% del 2015), soprattutto se il malato è maschio. Questo dato spiega anche l’aumento della quota di malati che vivono in casa propria, in particolare se soli con il coniuge (sono il 34,3% nel 2015, erano il 22,9% del 2006) o soli con la badante (aumentati dal 12,7% al 17,7%). Nell’attività di cura del malato, i caregiver possono contare meno di un tempo sul supporto di altri familiari: nel 2015 vi fa affidamento il 48,6%, mentre nel 2006 era il 53,4%. La badante rimane una figura centrale dell’assistenza al malato di Alzheimer: ad essa fa ricorso complessivamente il 38% delle famiglie. La presenza di una badante ha un impatto significativo sulla disponibilità di tempo libero del caregiver. Se complessivamente il 47,8% dei caregiver segnala un aumento del tempo libero legato alla disponibilità di servizi e farmaci per l’Alzheimer, tra chi può contare sul supporto di una badante la percentuale cresce di oltre 20 punti percentuali (68,8%) e di circa 30 punti nel caso in cui il malato usufruisca della badante e di uno o più servizi (77,1%).
Più consapevolezza sulla malattia, ma tempi lunghi per la diagnosi. Il 47,7% dei caregiver afferma di aver reagito subito alla comparsa dei primi sintomi della malattia del proprio assistito, interpellando il medico di medicina generale (47,2%), lo specialista pubblico (33,1%) o lo specialista privato (13,6%). Solo il 6,1% si è rivolto immediatamente a una Uva (Unità di valutazione Alzheimer). Tuttavia, la gran parte degli intervistati dichiara di aver ricevuto la diagnosi da un professionista diverso da quello consultato per primo (63,1%). A formulare la diagnosi di Alzheimer è principalmente lo specialista pubblico (65,5%), in particolare un neurologo (nel 35,6% dei casi) o un geriatra (29,9%), e solo per il 13,4% è stato uno specialista privato. Nel tempo si è ridotta la percentuale di pazienti che hanno ricevuto la diagnosi da una Uva (dal 41,1% nel 2006 al 20,6% nel 2015), mentre è aumentata la quota di diagnosticati dallo specialista pubblico (era il 37,9% nel 2006, è il 65,5% oggi). Il tempo medio per arrivare a una diagnosi resta elevato, pur essendo diminuito da 2,5 anni nel 1999 a 1,8 anni nel 2015.
Un’assistenza sempre più informale e privata. Diminuisce di 10 punti percentuali rispetto al 2006 il numero dei pazienti seguiti da una Uva o da un centro pubblico (56,6%). Quando la patologia è più grave il dato è ancora più basso (46%). Si abbassa leggermente anche la percentuale di pazienti che accedono ai farmaci specifici per l’Alzheimer: dal 59,9% al 56,1%. Ed è diminuito il ricorso a tutti i servizi per l’assistenza e la cura dei malati di Alzheimer: centri diurni (dal 24,9% al 12,5% dei malati), ricoveri in ospedale o in strutture riabilitative e assistenziali (dal 20,9% al 16,6%), assistenza domiciliare integrata e socio-assistenziale (dal 18,5% all’attuale 11,2%). Ampio è invece il ricorso all’assistenza informale privata: i malati che possono contare su una badante sono il 38%. Alla badante si fa ricorso principalmente utilizzando il denaro del malato (58,1%). Ma rispetto al passato emerge il peso inferiore delle risorse del malato (nel 2006 rappresentavano l’82,3% delle risorse destinate alle badanti), che appaiono bilanciate da un più ampio ricorso all’indennità di accompagnamento e al denaro dei figli o del coniuge.
«Oggi l’obiettivo di una cura efficace per i malati di Alzheimer sembra essere più vicino, ma è importante che, oltre al frenetico lavoro degli scienziati, anche i sistemi sanitari e la società in generale riflettano su quale sia un possibile modello di gestione della patologia e delle sue ricadute socio-sanitarie», ha detto Eric Baclet, presidente e ad di Lilly Italia. «Siamo certi che, di fronte ai dati epidemiologici e all’impatto socio-economico di questa patologia, solo attuando uno sforzo sinergico tra tutti gli attori potremo trovare una strategia di azioni sostenibili, volte a migliorare la qualità di vita dei pazienti e dei loro caregiver: dalla prevenzione alla diagnosi certa, dai trattamenti farmacologi al percorso assistenziale adeguato ai bisogni», ha concluso Baclet. «I tre studi realizzati da Censis e Aima negli ultimi sedici anni evidenziano come stia progressivamente cambiando il mondo dei malati di Alzheimer e delle loro famiglie», ha detto Ketty Vaccaro, responsabile dell’Area Welfare e Salute del Censis. «È un mondo che invecchia e cresce l’impatto della malattia in termini di isolamento sociale. La famiglia è ancora il fulcro dell’assistenza, ma può contare su una disponibilità di servizi che nel tempo si è ulteriormente ristretta, mentre sono ancora presenti le profonde differenziazioni territoriali dell’offerta», ha concluso Vaccaro.
Alessandro Lombardo
Come i Brand usano lo Storytelling

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LO STORYTELLIG NELLA VITA QUOTIDIANA. Quando incontriamo qualcuno nella vita reale per la prima volta, per conoscerlo gli facciamo numerose domande su quella che è stata fino a quel momento la sua vita: ascoltiamo i suoi aneddoti, idee, opinioni e credenze. Cerchiamo di portare alla luce la loro storia, e di trovare dei punti in comune con la nostra; l’obiettivo finale è quello di connettersi.
Tutto ciò ha il fine ultimo di trovare qualcuno che abbia uno spirito affine al nostro in modo da creare un legame di amicizia o di amore.
Nell’ambito del marketing aziendale, le regole non cambiano così tanto.
Raccontare la tua storia, ovvero ragionare in termini di Storytelling, è una parte fondamentale della costruzione del tuo marchio.
Aiuta a definire il modo in cui le persone ti vedono e consente ai consumatori di iniziare a creare una connessione tra te e la tua azienda.
Per farlo bisogna creare delle basi che ti consentano di sviluppare un marchio forte con un futuro ugualmente fiorente: la gente compra perché ama ciò che fai, ciò che rappresenta quel prodotto e le storie che condividi.
Ecco perché oggi una delle tecniche maggiormente utilizzata dai grandi brand è lo storytelling.
RACCONTARE IL BRAND CON LO STORYTELLING. Nell’era digitale, essere i primi nell’ambito del marketing significa incitare il pubblico a connettersi con il proprio marchio, e il modo migliore per farlo è attraverso una storia.
Del resto ognuno di noi è attratto da storie perché suscitano emozioni e l’emozione è ciò che vende.
Gli studi mostrano che le emozioni positive verso un marchio hanno un’influenza maggiore sulla lealtà del consumatore rispetto alla fiducia o ad altri giudizi basati sulle proprie caratteristiche.
Non è un compito facile creare contenuti che raccontino una storia avvincente ed emozionante, ma quando i brand ci riescono, si viene a creare un’esperienza unica.
Per capire quanto possa essere importante costruire una storia fantastica che racconti il proprio prodotto al fine di fidelizzare un cliente, un aiuto viene dalle strategie inerenti lo storytelling applicate da noti brand.
Nike ha da sempre eccelso nello storytelling del proprio marchio. Una delle loro migliori campagne è l’uguaglianza. Fa una dichiarazione forte sull’azienda: essa stessa diventa protagonista di un cambiamento sociale, offrendo qualcosa in più agli atleti di oggi che un semplice paio di scarpe da ginnastica e abbigliamento da allenamento di marca.
Questo è un esempio dell’uso dello storytelling da parte di un brand che vuole connettersi con il pubblico, invitandolo a diventare parte di un movimento collettivo indossando prodotti Nike o, impegnandosi sui social media, a condividere uno dei video che racconta di questo cambiamento.
Uno tra gli esempi più esemplari di storytelling aziendale è Ikea. Un brand che ha fatto della narrazione il suo strumento più incisivo semplicemente raccontando le storie di chi vive in un ambiente arredato con soli prodotti Ikea. In questo caso la strategia utilizzata è il visual storytelling: attraverso dei video presenti sul canale YouTube vengono mostrate scene di vita quotidiana come una festa o una cena in famiglia. Raccontando le storie di chi utilizza i prodotti Ikea significa riflettere questo brand nella propria vita dal momento che ci si immedesima nei personaggi immaginando che quel tipo di arredamento starebbe proprio bene anche nella propria casa.
Qui, per essere più chiari, con questo video, Ikea non vede i mobili. Ma incorpora tutto in una storia emotivamente rilevante.
Un altro brand che detta legge in materia di storytelling è Airbnb, il noto marketplace online in cui i proprietari di case possono offrire la loro proprietà, o parte di essa, in affitto mentre i viaggiatori possono poi lasciare una recensione sul luogo e sull’ospitalità del padrone di casa.
Ciò che bisogna sottolineare è che Airbnb non possiede o gestisce le proprietà stesse ma fornisce semplicemente un forum per i clienti per promuovere e prenotare proprietà, pasti e altro.
Quindi Airbnb invece di raccontare la storia della compagnia, fa in modo che i suoi clienti raccontino le loro storie. Questo è così importante per Airbnb che vi è un’intera sezione dedicata alle “Storie dalla community di Airbnb”.
Il rebrand e la campagna di Belong Anywhere del sito hanno utilizzato immagini e cortometraggi per offrire un’istantanea della vita degli host di Airbnb e di come potrebbe essere il soggiorno di un ospite.
È il cliente che viene posto al centro del marchio: questa tecnica funziona per Airbnb non solo perché aiuta i consumatori a costruire un’affiliazione con il marchio Airbnb, ma perché aiuta i consumatori a superare uno dei più grandi punti dolenti dell’utilizzo di un servizio come questo: conoscere le persone con cui si dovrà condividere quest’esperienza.
Non c’è un esempio di storia migliore di The Lego Movie. Una pubblicità di un giocattolo lunga ben 90 minuti che riesce a tenere incollati allo schermo tutti i telespettatori, usando il proprio prodotto come protagonista.
Se si analizza il film, è abbastanza evidente ciò che lo rende così efficace: indubbiamente si tratta di un bel film, incredibilmente ben scritto, per bambini e adulti. Il prodotto è l’intero film.
Ogni scena è magistralmente creata con Lego. Ci sono messaggi profondi che vengono evidenziati all’interno del film, che sono tutti incoraggianti e di facile comprensione: c’è un “costruttore” dentro ognuno di noi, se solo riusciamo a crederci e l’immaginazione di ognuno di noi è limitata solo se noi mettiamo dei confini ma che nessuno è mai troppo vecchio per creare qualcosa di magico.
Questi esempi di storytelling aziendale insegnano soprattutto che nulla si può improvvisare senza avere una strategia ben precisa di quello che si vuol trasmettere.
Pertanto è importante seguire alcune linee guida quando si vogliono creare delle storie per il proprio brand:
-
sviluppare contenuti che hanno un elemento emozionale, umano,
-
essere sinceri,
-
chiedersi se una persona sarebbe sinceramente interessata a leggerlo o guardarlo,
-
sapere cosa collega i tuoi clienti a te,
-
rendere semplici le storie,
-
essere in grado di descrivere una storia in un’unica riga.
Una volta trovato l’elemento umano del tuo marchio, puoi iniziare a pensare a come la tua azienda o il tuo prodotto può migliorare la vita delle persone e creare la tua storia.
Se i tuoi clienti si collegano alla tua storia a livello emotivo, vorranno farne parte.
E questa diventerà la tua arma vincente.
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Alessandro Lombardo
Dialoghi. Isabel Fernandez, EMDR, Traumi Infantili e Trauma Symptom Checklist for Young Children (TSCYC)

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Alessandro Lombardo
Design Thinking Lab | II Edizione | Torino – 18-19 novembre 2017

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Design Thinking Lab | II Edizione | Torino – 18-19 novembre 2017
A CHI PUO’ INTERESSARE IN DESIGN THINKING LAB?
Ai professionisti in genere, agli psicologi, ai formatori, agli educatori, ed a tutte quelle figure e professioni che hanno necessità di acquisire strumenti di lavoro in gruppo, o individuali.
Il Design Thinking Lab mette insieme varie attività, che hanno tutte l’obiettivo di mettere in grado di maneggiare al meglio le metodologie del DT.
GLI OBIETTIVI DEL DESIGN THINKING LAB
Ti riassumo gli obiettivi:
1 – Comprendere la logica che sta dietro ad ogni tools di Design Thinking (sono davvero tanti quelli che in questi anni ho raccolto, catalogato, e messo in pratica). Pur avendo, ciascun strumento, un suo elettivo ambito e modo di utilizzo, una volta che si è compresa la logica del Design Thinking stesso, diventa semplice approcciarsi ad ogni strumento di questo tipo, diventa semplice scomporli e ricomporli in modo che rispondano al meglio alle necessità del professionista, diventa semplice costruirsi i propri. Questo in sostanza è il vero obbiettivo di questo laboratorio: padroneggiare ed avere tutta la confidenza necessaria per orientarsi nel vasto mondo del DT
2 – Apprendere, utilizzandoli nel Lab, alcuni di questi strumenti per poterli poi saper utilizzare in autonomia secondo le proprie necessità
QUANDO
Sabato 18 novembre dalle 10 alle 17
Domenica 19 novembre, dalle 10 alle 17
COSA ACQUISTI CON IL DESIGN THINKING LAB
Il Design Thinking Lab, si compone di quindi di:
– 2 giorni di workshop full Immersion (14 ore in tutto) per un massimo di 20 iscritti per poter massimizzare l’apprendimento esponenziale e cooperativo.
– Materiale di lettura sul DT (una tesi di laurea che riassume un pò di storia, ed altro materiale specifico.
– Ebook con 10 tools con spiegate passo passo le modalità di utilizzo (alcune di queste le utilizzeremo nel DTLab)
– Iscrizione ad un gruppo FB ad hoc dove vengono diffusi altri materiale sul DT e dove creare un’ulteriore ambiente di apprendimento e di legami professionali
– 1 ora di coaching individuale con me, di persona o tramite skype o telefono in caso di necessità di supporto per un proprio progetto.
COSTI
Il costo che ho previsto per l’intero pacchetto è di 418 euro (più dieci euro di piattaforma) per chi si iscrive entro il 22 settembre.
Attenzione, il prezzo è destinato a salire per chi si iscrive dopo tale data a 560 euro.
COME ISCRIVERTI
Paga direttamente nella piattaforma (SHOPIFY, piattaforma totalmente sicura per i pagamenti on line) e paga tramite paypall, Carta di Credito, o bonifico bancario.
Clicca qui sotto sul tasto verde.
TRAINER
Alessandro Lombardo, CEO Design Thinking Lab
www.alessandrolombardo.org
info@alessandrolombardo.org
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